POLITICAPP | 24 marzo 2017

La fine del partito personale

Il partito personale piace sempre di meno

Il partito personale piace sempre meno, anche se l’opinione pubblica è, costantemente, alla ricerca di leader carismatici in grado di traghettare il Paese fuori dalle secche. La speranza è d’incontrare veri leader: trasparenti nelle cose che fanno, riflessivi e decisi nelle scelte, capaci di ascoltare le persone e dare l'esempio. Un allenatore che sa circondarsi dei migliori, per perseguire, con caparbietà, un ideale, un progetto di Italia futura. Il partito personale, con quel mix di personalizzazione, centralizzazione organizzativa e professionalizzazione, di cui parlava diciassette anni fa Mauro Calise nel suo famoso libro “Il Partito Personale”, non soddisfa più gli italiani. L’idea del gruppo politico strutturato e conformato intorno al leader piace solo al 28% del Paese. La proposta è attraente per una parte degli elettori della Lega Nord (57%) e di Forza Italia (54%); mentre è piuttosto indigesta per gli elettori di centrosinistra, per i grillini (24%) e, soprattutto, per gli indecisi (21%). A rendere inviso questo modello di partito sono diversi fattori.
Al primo posto troviamo il tema della “corte” intorno al capo (72%). Una tendenza che, secondo gran parte degli italiani, incide negativamente sulla formazione e sulla selezione dei gruppi dirigenti. Il partito del leader rischia, infatti, di selezionare per fedeltà e non per capacità politica; di mettere nei ruoli chiave persone inesperte, inadatte a intercettare i differenti e compositi bisogni che emergono dalla società e dai diversi segmenti sociali; di cercare l’unanimismo consensuale sulle proposte del capo, anziché di fare sintesi tra le diverse sensibilità e le molteplici proposte presenti sul tavolo della strategia politica.
Il secondo elemento di crisi del partito personale è l’eccessivo legame, la sudditanza, del gruppo politico rispetto ai destini del capo (68%). Infine, terzo fattore d’incrinatura, è la tendenza a conformare il partito (nelle regole, nell’identità e nell’organizzazione) alle caratteristiche del capo (65%). Il venir meno della simpatia per il partito personale, non intacca il bisogno di leader carismatici, capaci d’impersonificare attese, speranze, ambizioni, cultura e identità della base sociale di riferimento. L’opinione pubblica traccia un profilo abbastanza chiaro del leader ideale.
Uomo o donna che sia, deve essere limpido e trasparente; non intento a realizzare accordi sottobanco o a gestire affari; attento agli altri e capace di mettersi in ascolto; sobrio nei comportamenti e morigerato nelle scelte di vita; impegnato a dare l’esempio e a essere la guida sulla via tracciata; idealista al punto giusto, intento ad affermare dei valori e a perseguire un sogno; pragmatico nel fare, per tradurre le idee in fatti; determinato ma anche aperto e capace di circondarsi delle persone più competenti politicamente (allontanando i “signor sì” e i faccendieri). Il leader, per gli italiani, è un mix tra l’allenatore e la guida empatica. Non è un comandante in capo, ma una persona impegnata a guidare un gruppo verso il futuro, attenta a fare le cose e capace di esprimere pensieri lunghi ed emozioni. La scena politica nazionale, nel corso degli ultimi quattro lustri, ha offerto un vasto campionario di personalità politiche, da cui, gran parte del Paese è rimasta delusa.

Il bisogno di partiti coesi nel futuro

A determinare il senso di sconforto è stata, secondo l’opinione pubblica, la tendenza a difendere i propri privilegi, a sentirsi superiori agli altri, a curare il proprio tornaconto di potere, a circondarsi di corti e persone accondiscendenti, a essere opachi nella gestione e a ridurre le forme di collegialità, condivisione e partecipazione.
In questi venti anni abbiamo assistito, peraltro, al fiorire di micro-partiti personali, di raggruppamenti di transfughi (eletti tra le fila di una coalizione e passati poi tra i sostenitori della compagine avversa) e di correnti interne ai vari partiti (ognuna con il proprio sub-leader di riferimento). Non solo. La stessa formula del partito è cambiata, abbandonando la dimensione monolitica (e questo certamente è positivo), per assumere le sembianze di “un’arena di potere”, al cui interno si giocano le lotte e le competizioni tra aree e personalità.  Un mutamento che ha coinvolto sia i partiti maggiori, sia le formazioni più piccole, sia i nuovi movimenti, con l’emergere, proprio fra questi ultimi, della tendenza a vietare l’espressione del dissenso, per cercare di nascondere, sotto il classico tappeto, il proliferare di scontri, invidie personali, divisioni correntizie e cordate politiche di vario genere. L’esperienza dell’ultimo ventennio, quindi, ha metamorfizzato le forme della democrazia interna ai partiti e ha inciso sulle modalità di espressione del consenso e del dissenso. Archiviata l’epoca dell’adesione ideologica, si sono via via sfibrati molti dei collanti politici e di appartenenza, sostituendo l’adesione all’idea, con la fedeltà al capo, alla corrente, al sub-leader o ai propri interessi.
L’espressione del consenso e del dissenso è divenuta sempre meno il frutto del raffronto tra contenuti politico-strategico differenti e ha assunto (tendenzialmente) i contorni dell’assenso o del bisogno di differenziarsi dal capo o dal suo entourage. L’esprimere posizioni o il suggerire azioni differenti da quelle proposte dal capo è tollerato con fatica, mentre è agevole l’insediarsi di forme di sospetto, di giudizi di inaffidabilità, fino alla bollatura di tradimento.
La prima vera vittima di questo processo trasformativo non è soltanto la democrazia interna ai gruppi politici, ma è, innanzitutto, la qualità della cultura politica dentro i partiti. Il mutamento influisce sulla capacità dei partiti di produrre idee e soluzioni, sulla possibilità di generare scelte partecipate, condivise e attente a cogliere la multipolarità della società contemporanea: tutti fattori che nascono dal confronto, dalla dialettica tra le opinioni e sensibilità differenti.
Lo scollamento tra l’opinione pubblica e il partito personale, apre nuovi spazi di riflessione sul tema del modello di partito necessario per la democrazia contemporanea; rimette in primo piano l’urgenza di sviluppare e consolidare una nuova cultura della politica e, per dirla con Norberto Bobbio, di avere partiti capaci di incarnare lo scopo originario della loro nascita: l’essere associazione d’individui che stanno insieme per raggiungere uno scopo comune, per esprimere degli ideali e per collaborare alla realizzazione di un’idea di futuro.


 

LA POLITICA CHE CAMBIA

Il partito del leader convince poco

PARTITO PERSONALE

Piace a una quota di Lega e Forza Italia

LIMITI DEL PARTITO DEL LEADER

Il modello affossato dai cortigiani

IL LEADER DEL FUTURO?

Carismatico, trasparente e capace di ascoltare

I LEADER DI QUESTI 20 ANNI

Privilegiati, altezzosi, infastiditi dalle critiche